La motivazione che ci spinge ad indagare le madri, o le "matriarche",
come vengono anche chiamate queste donne nel libro della Genesi, è la ricerca
della genealogia femminile, poiché sappiamo bene che, oltre agli uomini, ci sono
state anche donne che, prima di noi, hanno incontrato Dio e che da questo
incontro hanno lasciato trasformare la loro vita e intrapreso un cammino che ha
portato dei frutti fino a noi. È indubbio quindi che le matriarche presenti nel
libro della Genesi fanno parte della nostra genealogia: sono le nostre "madri"
nella fede.
La ricerca di una
genealogia femminile nasce però - in particolare nell’ultimo secolo - anche da
una sorta di oscuramento della nostra vista che spesso, proprio nella cultura
moderna in cui siamo immersi, ha fatto sì che spiccassero maggiormente le figure
maschili. È come se il tempo moderno avesse incrementato il solo modello
maschile dell’umanità e avesse lasciato cadere una sensibilità per la differenza
umana esistente nel maschile e nel femminile, sensibilità che invece era molto
viva quando è stata scritta la Genesi e anche per molto tempo dopo. Per questo
motivo, propongo due versetti del profeta Isaia che dice: «Ascoltatemi, voi che
perseguite la giustizia, che cercate il Signore! Considerate la roccia da cui
foste tagliati, la buca della cava da cui foste cavati. Considerate Abramo
vostro padre e Sara che vi partorì; poiché io lo chiamai, quando egli era solo,
lo benedissi e lo moltiplicai. Così il Signore sta per consolare Sion… » (Is
51,1-3). Prima dunque della promessa di Dio ad Abramo, c’è l’invito a riguardare
le radici in cui si è piantati: tra queste radici non spicca solo il nome di
Abramo, ma anche quello di Sara. Fin
dall’inizio la tradizione biblica ha ben presente che nella vita delle persone
accadono cose diverse che sono legate anche al loro essere uomini o donne.
Vedere da vicino
queste matriarche fa scoprire che il loro cammino non è determinato dal loro
essere madri. Anzi, una cosa alquanto paradossale e straordinaria è che le madri
importanti, in Israele, sono sterili; non a caso, tutte le madri di cui
parleremo, a parte Agar (che però è madre di un altro popolo), hanno problemi di
fertilità. Ciò è paradossale poiché noi siamo abituati a pensare alle madri e ai
padri in quanto creatori di una linea genealogica, mentre in realtà la loro vita
è molto più ricca e non è necessariamente legata alla loro funzione biologica.
Questo ci rimanda ad un'importante affermazione di Gesù: quando qualcuno dalla
folla gli dice: «Beato il grembo che ti
portò e le mammelle che tu poppasti!», egli risponde: «Beati piuttosto quelli
che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!» (Lc 11,27-28).
Ciò che conta, dunque, non è il legame biologico, ma il fatto di mettersi
all’ascolto della parola ed essere guidati dalla presenza di Dio.
Il ruolo delle
matriarche quindi non consiste tanto nel loro essere madri, ma nella loro
capacità di ascoltare Dio. È stupefacente vedere quante volte Dio parli e loro
ascoltino, quante volte nella loro esistenza vengano loro rivolte delle parole
di cui anche i loro mariti sono all’oscuro. Un esempio è la rivelazione fatta a
Rebecca sui due gemelli che porta in seno e di cui il marito Isacco non saprà
nulla nemmeno quando i bambini saranno ormai adulti (Gen 25,23-26).
Analogamente, ad Agar viene rivolta un’annunciazione che si colloca in parallelo
all’annunciazione fatta a Maria (Gen 16,7-16; Lc 1,26-38). Dio si rivolge a
queste donne e loro sono delle ascoltatrici, sono cioè donne che lasciano che la
parola entri nella loro esistenza quotidiana.
Queste storie
presentano caratteristiche particolari. Ne ricorderò tre.
a) In
primo luogo, si tratta di storie legate ai matrimoni, ai figli piccoli, ai
problemi di generazione, al cibo e alla sua preparazione. Gli antropologi
riconoscono in questo tipo di racconti dei resoconti di cultura orale femminile:
sono le donne che si tramandano di generazione in generazione la difficoltà di
avere dei figli, oppure un fatto importante, oppure un piatto preparato in una
data occasione; è quindi molto probabile che nei capitoli del testo biblico ci
si trovi di fronte a tradizioni orali femminili. È merito soprattutto
della teologia femminista aver smascherato il fatto che il testo biblico,
sebbene scritto da uomini e quindi androcentrico, contiene anche delle
tradizioni femminili. C’è un convergere di energie femminili e maschili che
conduce all'ascolto della parola di Dio: un testo scritto da uomini contiene
anche dei "pozzi" preziosi legati alle donne.
b) Una
seconda caratteristica di questi racconti è che queste donne, come del resto
anche i patriarchi, sono coinvolte in storie di astuzie e di inganni escogitati
per aggiustare determinate situazioni. Ci sono gli inganni legati ai figli, per
esempio Rebecca che fa travestire Giacobbe al posto di Esaù per ingannare il
padre (Gen 27,15-16), oppure Rachele che ruba gli idoli domestici di suo padre e
lo tiene lontano da lei dicendogli che ha le mestruazioni (Gen 31,34-35). Si
tratta di bugie e astuzie che servono a perseguire un fine e, in qualche modo, a
stare all’interno dell’ascolto della vocazione che le ha portate su quella
strada, perché il racconto delle loro vite non è un racconto santificato. Come i
patriarchi, anche le matriarche conservano la loro umanità, le loro asprezze, i
tratti caratteriali che possono rendercele anche molto antipatiche o crudeli (la
gelosia di Sara per Agar). Ci vengono presentate con tutti i loro difetti e,
proprio per questo, sono ancora più preziose; la Bibbia, soprattutto la Bibbia
ebraica, non tende a rendere moralistiche e addomesticate queste figure, ma ce
le rende così come sono. Forse proprio in questo sta una forza ancora più
grande, poiché noi possiamo mettere di fronte ad esse anche la nostra esistenza,
che sicuramente non è fatta solo di momenti alti e di momenti buoni, ma anche di
cose che vorremmo nascondere e di cui ci vergogniamo. Anche le matriarche
dunque, come i patriarchi, hanno esistenze di questo tipo, in cui ci sono
momenti molto alti e momenti invece concreti e difficili da assumere; ciò rende
l’idea di una fede vissuta davvero nel quotidiano, nella materialità della vita.
c) Una
terza peculiarità consiste nel fatto che, mentre i patriarchi sono legati da una
discendenza diretta (Abramo è il padre di Isacco, Isacco è il padre di Giacobbe,
Giacobbe è il padre di Giuseppe), alcune matriarche sono prese all’interno della
famiglia, altre sono straniere oppure, anche quando appartengono alla famiglia,
provengono da un ramo dimenticato; sono le donne a mediare il rapporto dei
patriarchi con il mondo, con l’esterno. Sono, come dice anche la teoria dell’uso
delle donne come commercio sociale, le mediatrici tra situazioni diverse, tra
famiglie diverse, tra la famiglia patriarcale, chiusa nella sua linea di
discendenza, e l’esterno. Lo si vede benissimo, per esempio, nella genealogia
davidica e nella genealogia di Gesù, al cui interno ci sono donne straniere.
Le figure che
presenterò sono la coppia Sara - Agar, Rebecca, le sorelle Rachele e Lea, Tamar,
presente nella genealogia davidica e in quella di Gesù, e Dina, che invece non
appartiene a nessuna genealogia perché stuprata.
1. Sara, compagna di
vocazione di Abramo, è la prima che proviene dall’esterno: è una donna pagana
che, entrando in relazione con Abramo, è coinvolta nella sua stessa vocazione e
insieme a lui si mette in cammino. Pur essendo sterile fino a novant’anni, ella
resta essenziale alla promessa: non basta il figlio della promessa che il
Signore fa ad Abramo sia figlio di Abramo, deve essere anche figlio di Sara.
Il testo dice:
«Dio disse ad Abramo: "Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il
suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la
benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei". Allora Abramo si
prostrò con la faccia a terra, rise, e disse in cuor suo: "Nascerà un figlio a
un uomo di cent'anni? E Sara partorirà ora che ha novant'anni?". Abramo disse a
Dio: "Oh, possa almeno Ismaele vivere davanti a te!" [Ismaele, figlio di
Abramo e Agar, era già nato. N.d.R.]. Dio rispose: "No, Sara, tua moglie, ti
partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco. Io stabilirò il mio
patto con lui, un patto eterno per la sua discendenza dopo di lui. Quanto a
Ismaele, io ti ho esaudito. Ecco, io l'ho benedetto e farò in modo che si
moltiplichi e si accresca straordinariamente. Egli genererà dodici principi e io
farò di lui una grande nazione. Ma stabilirò il mio patto con Isacco che Sara ti
partorirà in questa stagione il prossimo anno"» (Gen 17,15-21).
La scena in cui
Abramo si piega a terra e ride rimanda alla scena del capitolo successivo (Gen
18,11-15) quando entrambi, marito e moglie, ridono all’annuncio così paradossale
che non può essere accolto dalla ragione umana, ma che deve essere accolto
dall’evidenza della effettiva nascita del bambino. Ma l’idea importante è che il
figlio della promessa è il figlio di Sara: questa matriarca è essenziale alla
promessa; non basta che sia un qualunque figlio di Abramo, il quale avrebbe
potuto avere figli con altre donne, ma è necessario che sia figlio di questa
donna.
Sara è legata ad
Abramo anche da un altro fatto importante che viene raccontato in Gen 12,10-20:
quando essi scendono in Egitto, Abramo, accorgendosi della bellezza di Sara, la
fa passare per sua sorella per paura di essere ucciso. Nonostante il fatto che i
commentatori si siano affannati a spiegare che una donna sarebbe stata più
protetta se fosse stata la sorella nubile di qualcuno, mentre se fosse stata la
moglie sarebbe stata presa dopo averle ucciso il marito, è chiaro che in questa
occasione Sara diventa una merce di scambio e, accettando una situazione quasi
di prostituzione, viene protetta da Dio. Qui è probabile il legame con la
tradizione orale femminile, perché le donne avrebbero tramandato con grande
gioia l’idea che Dio proteggesse una donna in una situazione pericolosa e la
sottraesse ad una probabile aggressione o rapimento.
Sara dunque
accetta di trovarsi in questa posizione per salvare il marito. A questo
proposito, Christianne Merolt dice che Sara assume la posizione messianica, cioè
accetta la sofferenza di essere considerata merce di scambio per salvaguardare
la sicurezza del marito. La cosa interessante è che alcuni midrash e alcuni
testi della tradizione islamica ci dicono che proprio in quel momento si svela
il “doppio” di Sara: essa viene offerta da Abramo al faraone; quando però, per
intervento divino, il faraone si accorge di ciò che sta per compiere, decide di
dare a Sara sua figlia Agar (che quindi sarebbe una principessa egizia) come
schiava.
Dicono i midrash:
«...dato che Dio protegge Sara in questo modo così forte, mia figlia starà
meglio in questa casa come serva che non insieme ad un uomo che non può
garantirle la stessa relazione con Dio…». In questo momento, evidentemente, Agar
diventa l’altra donna-oggetto che viene messa in gioco al posto di Sara.
Anche testi
islamici confermano questa tradizione: «...quando il faraone volle prendere Sara
per sé, la sua mano fu paralizzata; chiese allora a Sara di invocare Dio per
ridargli l’uso della mano. Per tre volte questa scena si ripetè, e per tre volte
Sara lo liberò. Capendo che non avrebbe potuto avere quella donna, fece venire
l’uomo che aveva condotto Sara, gli ordinò di allontanarla e di darle Agar per
serva. Sara ritornò verso suo marito accompagnata da Agar. Ella, sterile e già
vecchia per sperare di avere figli, diede Agar ad Abramo. La serva diede alla
luce Ismaele…».
2. Anche Agar è una donna
importante, una madre, non di Israele ma del popolo islamico, una madre
sostitutiva, una moglie passeggera, il tutto in una società in cui bastava che
la serva partorisse sulle ginocchia della padrona perché il figlio venisse
considerato della padrona, anche se in questo caso il figlio di Agar rimane
figlio di Agar e anche Sara lo allontana. Agar fugge una prima volta nel deserto
(Gen 16,1-16) e poi viene cacciata una seconda volta (Gen 21,9-21).
Durante la prima
fuga succede una cosa straordinaria: Dio la vede e lei vede Dio (sono poche
nella Bibbia le persone che vedono Dio!). Lo vede in ciò che vi è di più
prezioso nel deserto (l’acqua), cioè vede Dio nella possibilità che la vita
continui. Quando viene vista da Dio e riceve l’annuncio di ciò che sta avvenendo
in lei, le parole sono molto simili a quelle che l’angelo rivolge a Maria nella
annunciazione: «Ecco, tu sei incinta e partorirai un figlio a cui metterai il
nome di Ismaele, perché il Signore ti ha udita nella tua afflizione; egli sarà
tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano
di tutti contro di lui; e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli» (Gen
16,11-12). A differenza di quando verrà cacciata (lì è il Signore a udire il
lamento del bambino), qui è lei ad essere udita da Dio: esiste una relazione
diretta tra questi due episodi.
A questo
proposito c'è un testo brano molto importante per la tradizione islamica in cui
si parla di Agar come fondatrice del pellegrinaggio alla Mecca: «Agar,
abbandonata, corre dal marito e padrone e gli chiede. “A chi ci lasci?”. Ma
quando Abramo le confessa che è l’ordine di Allah, essa vi si sottomette e
riprende fiducia: “Se è Allah che ha decretato così, non ci abbandonerà”. La
borraccia d’acqua si è presto seccata e Agar cerca acqua chiedendo aiuto; si
dirige verso la montagna più vicina, il monticello di Safà, a nord della valle
della Mecca; sentendo il ruggito di un leone, ha paura per suo figlio e corre
verso di lui; di nuovo sente una voce che viene dalla collina di Magva e si
dirige da quella parte. È così la prima a compiere il tragitto divenuto liturgia
per i pellegrini musulmani, tra i due monticelli di Safà e di Magva. Sentendo la
voce di un uomo che essa non vede si mette a gridare chiedendo aiuto: “Ascolta
El, vieni in mio aiuto perché io muoio con mio figlio”. È l’angelo Gabriele che
viene in suo soccorso e la porta al luogo dove si trova il pozzo di Zamzam;
l’angelo batte la terra con il piede e una sorgente zampilla. Vedendo Agar
arginare l’acqua corrente, per impedirle di perdersi, Gabriele la rassicura
confidandole che quel pozzo darà acqua in abbondanza e che più tardi i
pellegrini, ospiti di Dio, dovranno dissetarvisi. Predice anche che il padre del
bambino verrà, un giorno, a costruire su questo stesso luogo un santuario al
Signore».
Agar quindi,
nella tradizione islamica, diventa la fondatrice del pellegrinaggio alla Mecca e
colei che riceve la sorgente d’acqua, che è la sorgente sacra a cui si
disseteranno i pellegrini. Si tenga presente che nella Genesi, i pozzi e le
sorgenti sono tutti legati alle donne: l’incontro con le donne avviene ai pozzi
e ciò è collegato al fatto che noi nasciamo nell’acqua, che il grembo materno è
il grembo dell’acqua e che la donna può essere rappresentata simbolicamente come
la grotta o il pozzo da cui essa scaturisce.
L’altro testo che
la Merolt mette in parallelo con la sofferta vicenda di Agar nel deserto è la
legatura di Isacco, quando Abramo prende il figlio, lo porta e lo lega, vivendo
tutto ciò con una grande sofferenza, fino a quando Dio non gli apre gli occhi e
gli mostra che c’è una possibilità di vita. La Merolt sostiene che la tradizione
islamica ha molto esitato se sostituire Ismaele a Isacco nel racconto della
legatura e, alla fine, l’ha fatto; la Merolt sostiene che non è necessario, per
dare l’idea di una perdita sostituita poi da un dono, perché già nel racconto di
Agar nel deserto c’è il cammino della perdita di ogni speranza, della perdita
della vita e poi del fatto che la si riceve di nuovo indietro, del passare
attraverso la sofferenza ed arrivare poi alla misericordia di Dio che apre gli
occhi.
Un altro elemento
importante è che Abramo deve rinunciare a tutti e due i suoi figli. Deve
rinunciare a Ismaele, quando Sara lo obbliga a cacciarlo insieme alla madre, e
deve rinunciare a Isacco, quando Dio gli chiede di sacrificarlo; anche Abramo
deve accettare che la promessa di Dio gli sia donata, avendo però creato un
distacco, avendo accettato di non appropriarsene. Ciò richiama anche il racconto
di Anna madre di Samuele, la quale, pur essendo sterile, riceve un figlio per
l’intervento di Dio, ma nel momento in cui lo riceve non lo considera suo e
quando il bambino è svezzato lo porta al tempio (1Sam 1).
3. La donna che prende il
posto di Sara è Rebecca. In un bellissimo midrash si dice: «Durante tutta la
vita di Sara una nube aleggiava sopra la sua tenda, ma alla sua morte questa
nube scomparve, ed ecco che essa ritornò quando giunse Rebecca. Durante tutta la
vita di Sara le porte erano spalancate, ma alla sua morte furono chiuse e non si
accolse più nessuno, ed ecco che il dono e l’accoglienza ricominciarono quando
giunse Rebecca. Durante tutta la vita di Sara c’era una benedizione nella pasta
del pane, ma alla sua morte questa scomparve, ed ecco che essa riapparve quando
giunse Rebecca. Durante tutta la vita di Sara c’era una luce accesa ogni sabato
fino al sabato seguente, ma alla sua morte questa luce si spense, ed ecco che
questa luce ricominciò a brillare quando giunse Rebecca. E quando Isacco si
accorse che Rebecca camminava sulle tracce di sua madre, la fece entrare nella
sua tenda e la sua tenda, grazie a Rebecca, ridivenne la tenda di Sara, sua
madre».
In questo testo
si vede come, nonostante Abramo si fosse risposato e avesse avuto altri figli,
la continuità venga ripresa soltanto quando Isacco incontra Rebecca presso un
pozzo. Anche questa donna è sterile. Il testo dice: «Isacco
implorò il Signore per sua moglie Rebecca, perché ella era sterile. Il Signore
l'esaudì e Rebecca, sua moglie, concepì. I bambini si urtavano nel suo grembo ed
ella disse: "Se così è, perché vivo?" E andò a consultare il Signore. Il Signore
le disse: "Due nazioni sono nel tuo grembo e due popoli separati usciranno dal
tuo seno. Uno dei due popoli sarà più forte dell'altro, e il maggiore servirà il
minore". Quando venne per lei il tempo di partorire, ecco che lei aveva due
gemelli nel grembo. Il primo che nacque era rosso e peloso come un mantello di
pelo. Così fu chiamato Esaù. Dopo nacque suo fratello, che con la mano teneva il
calcagno di Esaù e fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant'anni quando
Rebecca li partorì» (Gen 25,21-26).
La rivelazione a
Rebecca serve a farle comprendere quello che avverrà, anche nella relazione tra
i due figli, ed è ciò che guiderà il suo agire per far sì che Giacobbe, il
minore, riceva la benedizione del padre. Il testo biblico vuole spiegarci il
senso della preferenza di Rebecca per il figlio più giovane, giustificando anche
il suo uso dell’inganno nei confronti del vecchio marito; al tempo stesso mostra
che lei vive tutta la sua vita avendo una chiave di lettura per la vicenda dei
suoi figli, legata al suo rapporto con Dio, quindi interpreta la sua esistenza a
partire da questo.
Come anche noi
tendiamo spesso a giustificare le nostre prese di posizione con delle parole che
proiettiamo su Dio, così Rebecca ascolta una parola che le è stata data e la
serba dentro di sé al punto da modificare la storia, perché la storia possa
corrispondere a questa parola. La sua alta capacità di ascolto diventa
trasformazione dell’esistenza.
4. Rachele viene incontrata
da Giacobbe vicino al pozzo dove Gesù incontrerà la samaritana; questo pozzo è
un luogo prezioso, non soltanto di identificazione della figura femminile, ma è
anche luogo in cui l’incontro trasforma la vita: essi si incontrano, si
innamorano e ciò li porta al di sopra della realtà, ad incontrare Dio. Tanto per
cambiare, anche Rachele è una donna sterile e, a differenza della sorella Lea,
che pure non è amata, riesce ad avere soltanto due figli.
Come quelle che
l’hanno preceduta, anch’ella comincia ad architettare inganni: dà la sua serva
al marito e in questo modo riesce ad avere un figlio, anche se ciò è irrilevante
dal momento che non riesce ad avere una relazione feconda con il marito; cede il
marito alla sorella in cambio delle mandragore che si pensava fossero
afrodisiache.
In un midrash si racconta che i due figli di
Labano, d’accordo con il padre devono sostituire Rachele con Lea e concordano un
segnale per ingannare Giacobbe. Nel momento in cui però Lea sta per entrare
nella tenda, Rachele intuisce che se non farà qualcosa per cambiare la
situazione, la sorella verrà umiliata, disprezzata e non avrebbe più avuto vita
in una società com’era la loro, e allora le spiega qual è il segno.
In questo senso
il midrash dice che Rachele diventa un segno di conversione anche per Dio.
Quando, durante l’esilio, tutti i patriarchi vanno da Dio ad implorare la
liberazione e il ritorno di Israele e Dio non si smuove, alla fine giunge
Rachele che parla con lui e mette a confronto la gelosia divina per degli idoli
di pietra con la sua più giustificata gelosia per la sorella, fatta di carne e
di sangue, aggiungendo che anche lei le aveva svelato il segreto quella notte.
Così chiede a Dio di recedere dalla sua gelosia e avere misericordia; Dio allora
si converte e fa tornare il popolo dall’esilio. La figura di Rachele è dunque
modello e segno per la misericordia di Dio.
L'altra
caratteristica di Rachele è che, quando muore dando alla luce Beniamino, viene
sepolta lungo la strada sulla quale ritornerà il suo popolo. Anche su questo
punto segnalo un testo di Geremia in cui si dice: «Così parla il Signore: «Si è udita una voce a Rama, un lamento, un pianto
amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi
figli, perché non sono più. Così parla il Signore: "Trattieni la tua voce dal
piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché l'opera tua sarà
ricompensata", dice il Signore; "essi ritorneranno dal paese del nemico; c'è
speranza per il tuo avvenire", dice il Signore; "i tuoi figli ritorneranno entro
le loro frontiere" (Ger 31,15-17).
Rachele, dunque,
è colei che muore senza consolazione, dando al figlio un nome tristissimo quale
“figlio del mio lutto”, che poi il padre trasformerà in Beniamino. Ella è però
anche la consolatrice per tutte le generazioni e, secondo la tradizione
escatologica ebraica, attende il ritorno dell’ultimo ebreo in Terra Santa per
poi essere sepolta nella tomba della sua famiglia a Macbela.
Rachele
rappresenta la figura della shekinah, la presenza di Dio in mezzo agli
uomini che, dopo la distruzione del tempio è lacerata in due, una parte presso
Dio e una parte in esilio; indica la presenza di Dio nella sofferenza del suo
popolo, nello stesso tempo esiliata e presente in mezzo al popolo, vulnerabile
e, nello stesso tempo, fonte di consolazione.
5. Dina è la tredicesima
figlia di Giacobbe. Essendo stata violentata, non dà origine a nessuna tribù,
cioè a nessuna mediazione culturale; nonostante il suo violentatore voglia poi
sposarla, i fratelli glielo impediscono ingannando e massacrando tutti i
Sichemiti (Gen 34). Si tratta di una matriarca mancata perché perde tutto il suo
valore di mediatrice con l’esterno, anzi la sua presenza viene collegata con
l’origine di un conflitto sanguinoso tra uomini. Di nuovo una donna che è
oggetto di scambio tra uomini e che però non viene sottratta a questo ruolo come
lo era stata Sara.
6. Tamar (Gen 38) è la nuora
di Giuda che, dopo essere stata la moglie dei suoi primi due figli morti dopo il
matrimonio, viene rimandata a casa dal suocero per paura che muoia anche il
terzo. Questa donna che non ha “luogo” perché non ha figli e perché non è più
nella famiglia del marito; fingendosi una prostituta, si reca ad incontrare
Giuda, si fa dare un sigillo e rimane incinta. Anche lei avrà due gemelli e
costringerà il suocero a riconoscerli attraverso lo stratagemma del sigillo
(tutto ciò è in perfetta sintonia con la morale del tempo che riteneva
fondamentale dare dei figli al marito morto in modo che il suo nome
continuasse).
Ciò che rende
Tamar una figura straordinaria è il fatto che suo figlio Perez sarà il padre di
Boaz, che sarà il marito di Ruth (un’altra donna ai margini), dalla quale
discenderà la genealogia davidica. Sia Tamar sia Ruth irrompono, da donne
straniere e con l’uso di vari stratagemmi, nella genealogia di Gesù. È
straordinario il fatto che Matteo citi nella genealogia di Gesù quattro donne,
tutte e quattro al di fuori di una condotta irreprensibile: Tamar, Ruth, Raab
(la prostituta di Gerico) e Betsabea (la concubina di Davide); quindi la
straniera, la prostituta e l’adultera, cioè il tipo di donna che, attraverso le
difficoltà della vita e il tentativo di restare aggrappata alla giustizia per i
suoi figli e per se stessa, irrompe nella genealogia messianica. Questo ci
rivela anche che il Messia che verrà non bada tanto alla forma ma al contenuto.
Queste donne sono
dunque delle figure forti, che vivono vicende molto complicate (a volte
complicate da loro stesse), che vivono le difficoltà che, in fondo, tutte noi
viviamo, le difficoltà di relazione con altre donne, le gelosie, le invidie, il
problema di come stare in una relazione d’amore con il marito, i problemi con i
figli. Sono donne molto legate al destino dei loro figli, ma sono legate in modo
molto particolare al Dio che parla loro.
Allo stesso modo
dei patriarchi, esse ricevono una parola da Dio. La ricevono nella concretezza
della loro vita e quindi spesso è una parola che riguarda i loro figli o il
fatto che ne avranno; nonostante questo, spesso si elevano al di sopra della
loro funzione materna per svolgere dei ruoli salvifici o legati alla
trascendenza e al divino: Rachele diventa la consolatrice inconsolabile, Sara
diventa la madre di tutte le genti, Tamar persegue la giustizia. Uscite da un
simbolico patriarcale che forse le ridurrebbe al solo fatto di essere le madri
dei figli dei loro mariti, sono figure vere, autentiche, difficili, faticose,
che hanno una vita normale e che, nello stesso tempo, dicono qualcosa della
misericordia di Dio, della giustizia di Dio, della presenza lacerata di Dio tra
gli uomini. In questo senso il testo di Genesi, un testo non ancora appiattito
sul simbolico patriarcale, ce ne dà un’immagine che può essere da noi ricevuta
come un’immagine preziosa, preziosa come i pozzi, le sorgenti, le immagini
d’acqua che sempre le accompagnano e che sono per loro il segno che Dio mantiene
la vita anche in mezzo al deserto.
Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La
Porta l’8novembre 1999
Testo non rivisto dall’Autrice
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